Fra tutti gli equipaggiamenti fantascientifici che popolano i miei ricordi d’infanzia ce n’è uno che mi ha sempre affascinata molto: lo zaino protonico dei Ghostbusters.
In parte è sicuramente merito del suo aspetto un po’ raffazzonato, con quei “ciuffi ribelli” di cavi tenuti insieme con le fascette, i tubi e le componenti artigianali difficili da indentificare che però gli conferiscono – secondo me – una grande verosimiglianza e credibilità. Di quelle cose che (mi piaceva pensare da bambina) qualcuno, forse, da qualche parte nel mondo, nel suo garage, potrebbe aver inventato davvero.
Le lucine intermittenti e il suono che produce quando viene acceso, poi, fanno il resto.
Spiegato in parole semplici, il fucile collegato allo zaino proietta un fascio di protoni (particelle subatomiche caricate positivamente) che sono in grado di avviluppare le entità ectoplasmatiche (caricate negativamente) come una sorta di lazo di energia.
Il fantasma va poi trascinato verso un altro dispositivo, la trappola, che lo risucchia e cattura definitivamente.
Sulle cose materiali, invece, il fascio di protoni ha un effetto altamente distruttivo. Ma di questo, per citare Peter Venkman direttamente dal primo film, “Perché preoccuparsi? Ognuno di noi porta sulla schiena un acceleratore nucleare non autorizzato.”