Ubik (in Italia tradotto anche col titolo “Ubik, mio signore”) è un romanzo dello scrittore statunitense Philip K. Dick, pubblicato nel 1969.
Glen Runciter comunica con la moglie defunta per avere i suoi consigli dall’aldilà.
Joe Chip scompare dal mondo del 1992 e si ritrova nell’America degli anni Trenta.
Una trappola mortale ha annientato i migliori precognitivi del sistema solare ed è in corso una lotta per scrutare il futuro mentre il presente si dissolve, il tempo non ha significato e la vita si scambia con la morte.
Ora proviamo a riordinare le cose:
UN VIZIO FEMMINILE
“Vuoi che ti aiuti a risolvere i tuoi problemi, signor Chip? Sai che posso farlo. Siediti e scrivi il tuo rapporto valutativo su di me. Lascia perdere il test.”
Punto facile da analizzare: stronze, ciniche, intelligenti.
Se poi sono sadiche, ancora meglio.
Mi diverte molto il loro essere disinibite senza mai risultare volgari.
Di solito è la figura femminile a gestire meglio il controllo sugli altri, calibrando le proprie emozioni e usando le sue armi con sapienza e furbizia.
Ogni donna descritta da Dick è unita – bene o male – da queste caratteristiche eppure risulta sempre diversa, mai noiosa o “già vista”.
UBIK
“Io sono Ubik. Prima che l’universo fosse, io ero. Ho creato i soli. Ho creato i mondi. Ho creato le forme di vita e i luoghi che esse abitano; io le muovo nel luogo che più mi aggrada. Vanno dove dico io, fanno ciò che io comando. Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato, il nome che nessuno conosce. Mi chiamo Ubik, ma non è il mio nome. Io sono e sarò in eterno”.
Un banale prodotto commerciale? Un Dio? Tutte e due le cose?
La grande critica di Dick è indirizzata sulla merce che ci circonda, sul consumismo che diventa adorazione di tutto ciò che è “materiale”.
Fight Club diceva: “Le cose che possiedi alla fine ti possiedono” e penso che non possa esistere spiegazione migliore.
L’uomo, creatore, si ritrova in una posizione di schiavo che sta poi alla base di molti film – o libri – di fantascienza dove “le macchine” prendono il sopravvento.
In questo caso non sono androidi ma semplici prodotti.
D’altra parte siamo costantemente influenzati da ciò ce ci circonda, finendo poi per adattarci e piegarci alla volontà del commercio, stravolgendo le nostre vite e calibrando le abitudini in base agli oggetti su cui facciamo affidamento.
Un’analisi sociale spietata e inflessibile.
PUNTI DI VISTA
“È tutto diverso” – le disse Joe – “Devi essere tornata indietro nel tempo e ci hai messo su un altro sentiero temporale; non posso dimostrarlo e non posso specificare la natura dei cambiamenti.”
Cos’è la realtà e cosa tiene collegati i miliardi di fili che la compongono? Non è dato saperlo.
E non si capirà nemmeno leggendo con attenzione.
I personaggi di Ubik hanno una propria teoria della realtà che nel corso della trama viene falsificata e sostituita da una nuova teoria a sua volta insidiata da una diversa consapevolezza.
Nulla porta a un’unica spiegazione ma a una pluralità di soluzioni.
Ma alla fine non c’è una o più risposte esatte.
Il testo prende direzioni inaspettate e, se un evento può risultare incomprensibile all’interno di un dato universo di riferimento, può trovare senso in un altro totalmente differente.
Una lettura che invita a lasciarsi trascinare e godere della trama piuttosto che fare congetture.
Solo il Moratorium (centro di riposo per defunti, dove è possibile – pagando una somma di denaro – collegarsi con i propri cari estinti) ci porta a riflettere con più attenzione: dove sono quelle anime? Su un piano astrale? E, quando esauriscono la propria forza spirituale, dove vanno?
Perché sì, in qualche modo, anche i morti hanno paura della solitudine e della fine.
In un clima di suspense e paura, la sensazione è quella di essere intrappolati in un incubo surrealista che non si piega alle regole del romanzo classico.
Seguire il flusso di Ubik è, forse, l’unico modo sensato di capirlo fino in fondo.