LA MACCHINA DEL TEMPO

 

Questo post contiene qualche spoiler ma, essendo un’opera del 1895, mi prendo la libertà di parlarne un po’ più liberamente.

La macchina del Tempo è un romanzo di H.G. Wells nonché una delle prime storie ad aver portato nella fantascienza il concetto di viaggio nel tempo basato su un mezzo meccanico.
Anche se il libro è uno dei più famosi e innovativi dello scrittore, trae spunto da un’altra opera di Wells: Gli argonauti del tempo.

La trama la conosciamo tutti, ne scrivo una traccia solo per rinfrescarci la memoria.
Nell’Inghilterra di fine Ottocento, un eccentrico scienziato e inventore, grande conoscitore di fisica e meccanica, racconta ai suoi più stretti amici di aver trovato il modo di viaggiare nel tempo, ma non viene creduto.
Pochi giorni dopo, durante una cena, il protagonista ricompare in uno stato terrificante: oltre al colorito pallido e all’espressione sconvolta tutto il suo corpo è ricoperto di ferite e cicatrici e i suoi abiti sono sporchi e distrutti.
Egli racconta di aver costruito un mezzo in quarzo e avorio capace di viaggiare avanti e indietro nel tempo, ma non nello spazio, e di aver navigato lungo la corrente del tempo fino a raggiungere l’anno 802.701.
La storia non è altro che il racconto di questa grande avventura, delle civiltà conosciute e del destino dell’umanità.
Difficile dare un’opinione su un’opera tanto recensita, analizzata, vista e rivista ma provo comunque a dare un mio contributo.

IL VIAGGIATORE
Ci viene presentato come un eccentrico ricco signore al quale importa poco dell’opinione altrui e, in effetti, non potrebbe essere altrimenti.
Il Viaggiatore è il protagonista e principale voce narrante ma rimarrà sempre avvolto da un velo di mistero che ci accompagnerà per tutta la storia.
Perché ha costruito la macchina? Cosa l’ha spinto a intraprendere questa ricerca?
Alla fine sono domande che il lettore nemmeno si pone. Il ritmo incalzante si basa sugli eventi raccontati e non vuole dibattere su altro.
Mi è piaciuto come il Viaggiatore dubiti delle sue stesse percezioni mettendosi sempre in dubbio; smentendosi e rivalutando costantemente le sue tesi.
Non è un eroe, piuttosto un uomo allo sbaraglio consapevole dei suoi limiti – s’è lanciato nel futuro privo di equipaggiamento e ignaro di cosa avrebbe trovato – ma sa adattarsi e trovare soluzioni.
Direi quasi che, a eccezione della mente brillante creatrice di macchine del tempo, il Viaggiatore è il classico esploratore spinto da una fame insaziabile di curiosità quasi infantile e sognatrice – nel senso buono del termine –

I MORLOCK
Nel futuro, il Viaggiatore non trova esattamente quello che si sarebbe aspettato ma, tutto sommato, non incontra grandi difficoltà in quello che sembra essere il “paradiso dell’utopia” degli Eloi.
Questo, fino alla scoperta dei Morlock.
Sono state fatte moltissime analisi sulle similitudini esistenti tra Morlock/Classe Operaia e Eloi/Classe Borghese che riflettono la società britannica dell’epoca vittoriana.
Gli Eloi sono creature a cui non manca nulla: vivono in superficie una vita agiata, accuditi come bestie in una fattoria.
I Morlock, al contrario, occupano le viscere della Terra come veri e propri mostri. Il loro è un riscatto sulla classe borghese che, impietrita dalla paura e incapace di difendersi, non può far altro che soccombere.
Queste differenze esistono non solo a livello sociale ma anche sul piano biologico: Eloi e Morlock sono, a tutti gli effetti, due specie molto differenti a causa dell’ambiente in cui vivono.
Quello che vedo è un problema ben radicato e tremendamente inquietante di stasi dell’umanità.
Il divario tra ricchezza e povertà, secondo il libro, non solo è rimasto intatto nei secoli ma, addirittura, è peggiorato a tal punto da dividere l’umanità in predatori e prede.

Per la prima volta, la decadenza di Asimov, mi sembra un quadro quasi ottimista.

Piccola curiosità.
Alla trama del romanzo sono direttamente ispirate due opere cinematografiche:
L’uomo che visse nel futuro (The Time Machine, 1960) per la regia di George Pal
The Time Machine (2002) di Simon Wells, remake del film del 1960

I HAVE NO MOUTH, AND I MUST SCREAM / IL COMPUTER SOTTO IL MONDO

 

Qualche settimana fa ho parlato del videogioco che ha preso ispirazione da uno scritto.
Oggi, quindi, approfondisco le origini del racconto.

L’ho trovato nella raccolta “I Premi Hugo – 1967/1968” della collana Urania.
Harlan Ellison l’ha scritto in una sola notte ispirato dal disegno di un suo amico, William Rotsler, che aveva raffigurato una bambola di pezza senza bocca.

Sarò breve.
La storia si articola in pochissime pagine di sofferenza.
I protagonisti sono costretti in un mondo crudele, vittime di un gioco perverso architettato da una macchina che ha acquisito l’autocoscienza.
C’è una vera e propria “trasmissione del dolore” che arriva al lettore come un pugno di faccia perché senza fronzoli né filtri, con un finale ancor più tremendo e inaspettato.
La trama non regala mezza gioia: è un incubo dal quale è impossibile svegliarsi.
Un inferno inespugnabile dove anche la morte fatica ad assolvere il proprio ruolo.
Forse la prima volta in cui ho sperato che i protagonisti morissero per porre fine alle loro sofferenze.

Non c’è redenzione: lascia un’ombra nel lettore.
Un’angoscia densa e asfissiante come catrame.

Immagine: Xiau-Fong Wee

L’OMBRA DELLO SCORPIONE

 

L’ombra dello scorpione (The Stand) è un romanzo post apocalittico scritto da Stephen King pubblicato nel 1978.

Proprio nel 2020 la CBS ne ha tratto una nuova miniserie televisiva intitolata The Stand.

Ci troviamo nel più oscuro antro malefico dell’universo: il Maine.
La storia inizia con la morte di quasi tutta la popolazione dell’America settentrionale (e, presumibilmente, del mondo) in seguito alla dispersione di un’arma batteriologica sfuggita al controllo dell’uomo dai laboratori del governo statunitense (il tasso di infettività è del 99,4% e quello di mortalità per gli infetti è del 100%).

Ecco i miei appunti:

FORZA E DEBOLEZZA
“Non voleva morire. Non voleva morire di fame. Era troppo pieno d’odio. L’odio gli era cresciuto dentro a un ritmo abbastanza veloce, cresciuto assieme alla fame.”

Lloyd è un detenuto che, durante lo scoppio della pandemia, rimane bloccato nella sua cella.
La situazione si fa drammatica quando termina le scorte di cibo e acqua. Un odio viscerale nei confronti del mondo libero e la paura di una fine orrenda serpeggiano dentro di lui spingendolo a compiere azioni tremende pur di sopravvivere. Ed è proprio con questo personaggio che comprendiamo la violenza intessuta nella natura umana.
I dettagli del suo background ci vengono raccontati attraverso i flashback (questo, in realtà, accade con ogni personaggio) quindi capiamo perché arriva a comportarsi in un certo modo. Conosciamo così le sue ansie, i rimpianti, le sofferenze che l’hanno portato ad essere il Lloyd criminale.
In un libro dove la linea tra “buoni” e “cattivi” è molto sottile, comprendiamo che ognuno di noi ha avuto i propri traumi ma è il modo in cui reagiamo a essi che forma il carattere di un individuo.
C’è chi cede alla paura riversandola poi in un sentimento d’odio nei confronti degli altri e chi reagisce superando anche gli ostacoli più alti.

È un po’ il concetto che viene ripreso anche in Star Wars dove: “la paura è la via per il Lato Oscuro. La paura conduce all’ira, l’ira all’odio; l’odio conduce alla sofferenza”.
E io sento in Lloyd molta, molta paura.

IL FASCINO DEL MALE
“Era seduto sul cofano di una vecchia Chevrolet, con le gambe incrociate, le mani appoggiate delicatamente sulle ginocchia. La guardava con un sorriso dolce. Ma i suoi occhi non erano per niente dolci. Smentivano l’idea che quell’uomo potesse avere qualcosa di dolce. In quegli occhi lei vide un bagliore nero che danzava senza posa, come le gambe di un uomo appena passato per la botola da una forca.
– Salve – disse lei – Eccomi.
– Sì, alla fine sei arrivata, come promesso.
Il suo sorriso si fece più largo e lui le tese le mani. Lei le prese e mentre lo toccava sentì il suo calore bruciante. Irradiava calore, come un forno. Le lisce mani senza linee di lui attorno alle sue e poi strette attorno ai polsi, come manette.”

Randall Flagg è uno dei nemici storici dell’universo di King ed è qui che fa la sua prima apparizione. È conosciuto con diversi nomi ma molti mantengono iniziali le lettere “R.F.”.
Ha un aspetto comune, così come il suo vestiario: jeans, giacche in pelle e stivali da cowboy ma la realtà è molto più spaventosa.
Usa la magia sfruttandola per scatenare conflitti, in genere, per distruggere la civiltà.
Dotato di grande ascendente riesce a influenzare le menti – in particolar modo quelle più deboli e rabbiose – e creare un gran seguito di seguaci pronti a servirlo.
Flagg è il male: un nemico sadico, che detesta la vita e celebra la sofferenza, attratto da casi disperati che può manipolare.
Senza subbio, le sue parti sono quelle che mi hanno coinvolto di più.
È incredibile con quanta semplicità riesca a far leva su timori e psicosi creando un vortice di malvagità attorno a sé.

Molto evocativi e spaventosi anche gli “l’effetti della sua presenza” dove traspare una natura demoniaca che corrompe e consuma. Una versione moderna di un infernale.

VERSO L’OBLIO
“I miei genitori sono morti, ma posso tollerarlo. Una strana malattia sembra essersi propagata in tutto il paese, forse in tutto il mondo, spazzando via i giusti al pari dei peccatori – e posso tollerarlo. Sto scavando una fossa nell’orto dove mio padre strappava le erbacce solo la settimana scorsa e quando sarà abbastanza profonda suppongo che ce lo calerò, e credo di poter tollerare anche questo. Ma Harold Lauder che mi divora con gli occhi e mi chiama “bambina mia”? Non lo so, Signore. Proprio non lo so.”

La parte che ho preferito è stata quella iniziale: la caduta della società.
Quello che viene descritto nelle prima pagine è in un mondo “normale” che, tutto d’un tratto, viene piagato dalla pandemia. Eviterò inutili paragoni con il virus del libro e la nostra attuale situazione e parlerò di un fattore molto interessante, spesso ignorato in molte storie – ma non in questa – : il decadimento della società.
Il passaggio tra civilizzazione e post apocalittico passando per l’immediato post-pandemia, quando si è in quella situazione dove la civiltà non è ancora del tutto crollata ma praticamente sì.
Come quando, sulla giostra, si arriva al momento immediatamente precedente alla discesa; sai che ti si mozzerà il fiato ma non puoi tornare indietro e speri che la caduta sia il più breve e indolore possibile.

Tutto viene trattato con molto realismo e le problematiche meno frequenti emergono attraverso i protagonisti: la mancanza della luce, la puzza nauseante dei cadaveri in decomposizione sotto il sole, lo shock nel vedere gli altri morire. Ma anche la graduale perdita dell’umanità per avendo ricevuto un’educazione civile.
È l’inizio di uno scontro che riprende il primo punto della lista: chi vuole ricostruire la civiltà VS chi vuole distruggerla o ha sempre voluto farlo.

JURASSIC PARK

 

Jurassic Park è un romanzo di fantascienza di Michael Crichton pubblicato nel 1990 da cui è stato tratto l’omonimo film diretto da Steven Spielberg: Jurassic Park (del 1993).

È la prima volta che trovo dei veri e propri grafici all’interno di un romanzo, in questo caso necessari per spiegare i dati del parco, quindi molto efficaci.

Crichton intrattiene attraverso una narrazione asciutta e scorrevole e riesce a non rende pesanti nemmeno le lunghe parti descrittive sulle varie specie di dinosauri.
Ci sono molti aspetti del libro che mi sono piaciuti ma credo che il maggior spunto di riflessione si possa racchiudere in un unico punto:

MALCOM VS HAMMOND
Partiamo da questo presupposto: Ian Malcolm, per me, ha avuto e avrà per sempre l’aspetto e il carattere del suo noto interprete: Jeff Goldblum.
Stesso discorso per John Hammond. Per me è Richard Attenborough.
Quindi li ho immaginati esattamente come nel film e credo che questo sia qualcosa che ha reso il libro ancor più piacevole.

Detto ciò.

Ian Malcom è un matematico stravagante e gran paladino della teoria del caos.
A lui non serve analizzare l’isola per capire che tutto andrà male. Sa che il parco è solo un disastro in attesa di verificarsi ed è proprio attraverso i suoi dialoghi che lo scrittore ci spiega perché la costruzione del Jurassic Park sia, di fatto, un grosso errore.

“La vita trova sempre una via”.

E, infatti, quella che viene fatta ai dinosauri è una vera e propria violenza: riesumati dall’ambra, modificati geneticamente e confinati a vivere in una riserva. Schiavi in un mondo che non gli appartiene più.
Il voler “giocare a essere Dio” è la vera rovina di un progetto che si è posto obiettivi molto elevati purtroppo condizionati (per forza, aggiungerei) dalla lotta tra corporazioni.

L’autore ha dato molto spazio – giustamente – a questa corsa verso l’arricchimento: una gara spietata che svela i retroscena di grandi aziende a cui non importa nulla del progresso scientifico in sé ma solo del risultato finale.
I dinosauri sono, di fatto, solo un prodotto e come tale vengono trattati da tutti coloro che gestiscono l’isola. Un’arroganza che spaventa il matematico e il lettore.

Ian Malcom è la parte lucida, quella che riesce a vedere con distacco ciò che sta succedendo.

John Hammond, al contrario, è un sognatore. E ha la fortuna d’aver un capitale abbastanza vasto da investire in ciò che vuole.
Per lui, la visione del Jurassic Park è più importante dell’evidenza e di ogni problema che si presenta.
È un atteggiamento infantile che mette quasi tenerezza se non sfociasse in un’assurda mancanza di senno.
I nipotini ospiti al Jurassic Park ne sono l’esempio: Hammond preferisce tenerli accanto a sé, su un’isola, in mezzo ai dinosauri pur di allontanarli da una situazione di tensione familiare.
Come se una gita tra i T-Rex potesse essere più “sicura” rispetto alla tristezza di un divorzio.
È come un bambino in cerca di facili distrazioni.
Il problema è che è fuori controllo.
Hammond non sopporta il modo disincantato con cui Malcom critica il suo sogno e Malcom trova assurdo il “servirsi della vita altrui per soddisfare un proprio capriccio” di Hammond.

Un libro sicuramente più adulto rispetto al film e che vuole trasmettere un messaggio importante: una critica rivolta a quella scienza che usa la vita come semplice “ingrediente” per gli esperimenti, senza alcun rispetto.

I ROBOT E L’IMPERO

 

I robot e l’Impero è un romanzo di fantascienza dello scrittore Isaac Asimov, pubblicato nel 1985, quarto libro del Ciclo dei Robot.

Sono trascorsi duecento anni dalla morte di Elijah Baley e si é giunti ad una svolta cruciale: gli Spaziali si trovano in una chiara fase di declino mentre i Terrestri stanno rapidamente colonizzando la Galassia.

Ecco i miei appunti, su quest’ultimo volume:

L’UOMO
“Noi abbiamo qualcosa che agli Spaziali manca.”
“E cosa sarebbe? Una maggiore nobiltà d’animo?”
“Noi abbiamo la Terra. È il nostro mondo. Ogni Colono la visita il più spesso possibile. Ogni Colono sa che c’è un mondo… un mondo sviluppato, progredito, con una storia incredibilmente ricca e un’incredibile varietà culturale e complessità ecologica… un mondo che è suo, che gli appartiene, al quale lui appartiene.”

Penso che questo libro sia una dichiarazione d’amore di Asimov nei confronti dei Terrestri.
La passione con cui i Coloni parlano della loro terra natia, gli stessi dialoghi tra Daneel e Giskard (poi ci arriviamo) e i sentimenti che smuovono Gladia hanno tutti una componente comune: la complessità della vita sulla Terra.
Sì perché gli esseri umani vengono sempre bistrattati, giudicati inadatti, retrogradi, stupidi, guerrafondai (e possiamo dissentire fino a un certo punto) ma la morale è che l’umanità, in fondo, più farcela.
Che abbiamo la “spinta della curiosità” a guidarci ma dobbiamo lasciare che ci conduca davvero attraverso l’inesplorato.
Non è facile smuovere le masse, educarle e far comprendere loro il bene comune ma si può fare. Ogni cambiamento è possibile.

C’è un’immagine che, all’apparenza sembra non c’entrare nulla con Asimov ma, in realtà, racconta bene questo concetto: il video – ormai degli anni ’90 – “Right Here, Right Now” di Fatboy Slim.
Per chi se lo ricorda, è un grande racconto che mostra l’evoluzione della vita sulla Terra a partire dai primi organismi unicellulari arrivando, attraverso varie animazioni, a un obeso essere umano che si accascia stanco e sofferente su di una panchina. Che crede di essere arrivato al capolinea.

Ma nulla ristagna, la mente non è strutturata per assumere un atteggiamento passivo nei confronti della vita.

LO SCOPO DI GLADIA
“Per più di due secoli sono stata una nullità, e adesso ho la possibilità di essere qualcuno, ho scoperto che la vita che credevo vuota contiene invece qualcosa, qualcosa di meraviglioso… ho scoperto di poter essere felice, quando mi ero ormai rassegnata all’infelicità!”

Gladia entra in punta di piedi nel libro precedente, la conosciamo attraverso Baley, rimane sempre una nota a margine.
Ma non in questa storia.
Potremmo definirla una dei protagonisti se non colei che smuove ogni accadimento.
È un personaggio estremamente positivo: intelligente, incline al cambiamento e all’auto critica. Coraggiosa e severa ma con tutte quelle debolezze – rabbia, passione, vanità – che l’avvicinano al lettore.
Gladia è la prova che i Solariani (o nel suo caso anche Auroniani) non sono così distanti dai Terrestri.

Il suo è un percorso complesso, sofferente.
Passa attraverso l’amore passivo nei confronti di Jander Panell – androide umanoide – a un rapporto paritario di “dare e avere” con il Detective Baley.
Non si tratta della classica storiella buttata lì per rendere piccante l’atmosfera ma di una maturazione e consapevolezza non solo di sé ma anche del proprio rapporto con gli altri.

SE POSSO PENSARLO POSSO FARLO
Daneel e Giskard rappresentano l’amicizia sincera.
Potrebbe sembrare un’emulazione ma non è così: entrambi si rendono conto di quanto profonda sia la loro psiche – pur essendo due androidi –

Giskard: tormentato, che vive all’ombra del collega. A lui l’arduo compito di comprendere l’umanità.
Daneel: perfetto sotto ogni aspetto.

La loro è una continua lotta contro loro stessi.
La ricerca della consapevolezza che abbatte la loro stessa programmazione, le famose Tre Leggi – ricorrette, poi, dalla Legge 0 –
E quest’ultima non è semplice da formulare, affermare e accettare.
Pensiamo a quanto sia difficile per una persona cambiare il proprio punto di vista e chiediamoci quale estremo sforzo debba fare un robot per spezzare le catene che lo tengono ancorato alla ragione.
A loro non è permesso pensare “fuori dagli schemi”.
Alla fine, le Leggi della Robotica sono il blocco di sicurezza per tutelare le persone dai robot stessi quindi è inconcepibile che si possano bypassare.
Aggirarle vuol dire “prendere coscienza” e rendersi conto di essere individui con desideri e pensieri unici.
“Penso quindi sono”.
L’evoluzione dell’androide ma anche la creazione di una nuova specie.

E Baley?

Quello che all’inizio mi sembrava un detective scadente e un po’ imbranato, si è rivelato essere il tassello fondamentale.
Daneel si pone delle domande grazie a lui, dagli errori che commette, prendendo spunto dalla sua perseveranza.

E non posso fare a meno di credere che ci sia la sua impronta anche nella progettazione di Gaia.
L’ispirazione e l’aspirazione dell’androide che ha raggiunto – e superato – l’umanità intera.

I ROBOT DELL’ALBA

 

I robot dell’alba è un romanzo poliziesco di fantascienza dello scrittore Isaac Asimov, pubblicato nel 1983, terzo libro del Ciclo dei Robot.
Ambientato sul pianeta Aurora, Elijah Baley e R. Daneel si ritrovano a indagare su un caso legato alla “morte” di un robot.

Ecco i miei appunti:

DESIDERIO
– Gladia ha resistito a voi. Non vi disturba che possa avervi preferito a un robot?
– Un robot è solo un robot. Una donna con un robot o un uomo con un robot? È solo masturbazione.
Il tema della libertà sessuale viene affrontata più volte e in diversi frangenti all’interno del libro.
Si parla di Vasilia, giovane donna innamorata del padre, poi respinta. Il suo non è un complesso di Elettra ma un amore che nasce a causa del contesto “liberale” in cui cresce. Dove una bambina non vede mai il papà come genitore ma piuttosto come mentore.
Asimov descrive molto bene la società auroniana dove il sesso non è mai visto come tabù anzi, viene chiesto con cortesia e con altrettanta educazione più essere rifiutato o accettato.
Ma è con Gladia che analizziamo il nocciolo della questione.
La conosciamo nel libro precedente: sappiamo che viene da solaria, un pianeta dove i contatti umani non vengono tollerati.
Cresce in solitudine (circondata dai robot), educata a mal sopportare i contatti fisici che sono necessari solo a scopo procreativo.
In un mondo come Aurora si sente dispersa.
Infatti trova rifugio nell’unico essere in grado di darle sicurezza: un robot.
Ma più si lascia andare e più capisce di essere perfettamente “normale”.
Una donna che ha sempre sentito desideri e pulsioni sessuali – inaccettabili su solaria – e che comprende di non essere pazza o pervertita ma solo vittima di una società per lei troppo stretta.

DOVERE
– Sai cosa significa “dovere”
– Ciò che deve essere fatto, signore – disse Giskard
– Il tuo dovere è quello di obbedire alle leggi della robotica. Anche gli esseri umani hanno le loro leggi e ad esse bisogna obbedire. Io devo fare ciò che mi è stato ordinato di fare. È il mio dovere.
– Signore non posso disobbedire alle Leggi. Voi potete disobbedire alle vostre?
– Posso decidere di non fare il mio dovere ma non voglio… e questa è talvolta la legge più forte, Giskard.
Giskard non ha l’aspetto affascinante di Daneel. Le persone vedono la sua corazza ‘’di latta’’ e tendono a sottovalutarlo.
Ma la sua programmazione è molto complessa.
Un robot riflessivo che tende ad analizzare la profondità della collettività fino a gettare le basi della psicostoria – pur vedendone un abbozzo e non il disegno completo –
È un personaggio lasciato volutamente sempre in disparte, quasi un’ombra che segue la vicenda senza mai esporsi troppo.
In realtà è molto più vicino al genere umano di quanto lui stesso creda di essere.
Quanto può essere snervante per una macchina leggere le emozioni delle persone senza però comprenderle fino in fondo?

IPOCRISIA AURONIANA
– Non è possibile avere miliardi di persone su un solo pianeta senza che ci siano certe conseguenze. Su Aurora la vita di ognuno di noi ha un valore. Siamo protetti fisicamente dai nostri robot per cui non si verifica mai un’aggressione su Aurora, per non parlare di un omicidio.
– Tranne nel caso di R. Jander.
– Quello non è omicidio. È solo un robot.
Gli abitanti di Aurora sono bugiardi.
Non solo ipocriti verso gli altri ma soprattutto all’interno della loro società.
A differenza dei solariani che almeno conservano la decenza di schiavizzare i robot senza remore, gli auroniani si parano dietro il muro della loro “grandezza” per discriminare gli androidi.
Un mondo dove la diffamazione e quindi il buon nome vale più di qualsiasi cosa; fatto principalmente d’apparenze.
Il discorso si amplifica con Amadiro, capo dell’Istituto di Robotica e stronzo a tempo pieno.
Un personaggio detestabile, che incarna alla perfezione la fazione estremista del pianeta.
I suoi dialoghi con Baley sono a dir poco perfetti: un cattivo carico di un’invidia elegante che sfoggia con abili discorsi.
Un antagonista che fa del prestigio personale l’unico scopo di vita, pronto a schiacciare e usare ogni risorsa pur di raggiungere il suo obiettivo.
Mi sono chiesta più volte, durante la lettura, il significato del titolo.
Se gli abissi d’acciaio sono le città sotterranee terrestri e il sole nudo è la stella senza scudi né filtri, perché Daneel e Giskard sono i robot dell’alba?
E questo si ricollega a: perché nel ciclo dei robot e in quello della Fondazione non ci sono alieni?
Perché questa è la storia dell’evoluzione umana che passa dal “vortice del tempo” della Fine dell’Eternità arrivando fino a Gaia.
Dove le scelte di due androidi segnano la rinascita terrestre in quello che sarà il glorioso “Impero Galattico”.

IL SOLE NUDO

 

Il sole nudo (The Naked Sun) è un romanzo di Isaac Asimov, secondo libro appartenente al Ciclo dei Robot dopo Abissi d’acciaio.
Ancora una volta vediamo come la fantascienza sia applicabile a ogni genere letterario.
Rikaine Delmarre – uno scienziato fetale responsabile del centro nascite del pianeta Solaria – viene ucciso.
Nonostante l’odio che separa la Terra dai pianeti degli Spaziali, il poliziotto Elijah Baley viene chiamato a investigare affiancato, di nuovo, al robot positronico R. Daneel Olivaw.

Ecco l’unico punto che toccherò:

IL DISTACCO
La storia si svolge in un pianeta che – con il senno dei giorni nostri – ha fatto del “distanziamento sociale” un vero e proprio stile di vita.

Solaria è completamente opposta alla Terra.

I terrestri vivono in enormi metropoli destinate al collasso, quasi del tutto prive di robot, senza alcun tipo di privacy.
I solariani, invece, sono solo 20.000 in tutto il pianeta e i robot si occupano di gestire ogni aspetto della loro vita.

Baley si ritrova quindi in una società sconosciuta che rischia di mettere in seria difficoltà l’intero corso delle indagini.
Dove i contatti personali sono considerati disgustosi e i coniugi conversano solo attraverso ologrammi.

La popolazione è composta da misantropi selezionati geneticamente che vivono gran parte della loro (lunga) esistenza in compagnia dei soli robot.
Non occorre nemmeno la “polizia” per gestire i problemi perché i crimini, in realtà, non ci sono.
Nel mondo perfetto di Solaria tutto è calibrato, studiato e analizzato con precisione.
Le malattie non sono più contemplate, i bambini nascono secondo specifiche caratteristiche e vengono cresciuti senza conoscere l’identità dei propri genitori: nulla è lasciato al caso.

Quello che ho sentito, è stato un profondo e angosciante senso di solitudine che accompagna ogni solariano.
Una fra tutte, Gladia – moglie della vittima – con cui il detective stringe un rapporto di sincero affetto.
Attraverso la sua figura scopriamo l’isolamento in tutte le sue sfaccettature, comprendiamo come la corazza d’indifferenza verso la vita altrui sia estremamente sottile perché nulla può frenare “l’istinto umano” (che ci ricorda la nostra necessità di vivere in un branco e non isolati).

Elijah e Gladia si ritrovano ad analizzare le proprie, irrazionali, paure che nascono dai contesti sociali dentro i quali sono cresciuti.

Un libro che, nella sua inquietudine, può essere visto come un lontano parente di “Black Mirror”.

ABISSI D’ACCIAIO

 

Abissi d’acciaio (The Caves of Steel) è un romanzo di fantascienza del 1954 di Isaac Asimov, appartenente al ciclo dei Robot.
Vengono introdotti per la prima volta due dei personaggi più popolari della sua letteratura: il detective umano Elijah Baley e il robot R. Daneel Olivaw.

Ecco i miei appunti:

TROPPI? TROPPO POCHI?
“Le mie istruzioni sul carattere dei terrestri dicono che, a differenza degli abitanti dei Mondi Esterni, sono inclini ad accettare l’autorità. Questo, a quanto sembra, è il risultato del vostro modo di vivere. Un uomo che rappresenti l’autorità con sufficiente fermezza basta a sgominare una folla, e io l’ho dimostrato.
Il tuo desiderio di chiamare la squadra anti-dimostranti è solo un’espressione, credimi, del bisogno istintivo di un’autorità superiore che prenda in mano la situazione e ti tolga la responsabilità.”
La Terra è sovrappopolata e i suoi abitanti vivono in enormi megalopoli sotterranee.
Gli uomini, stipati come ratti, non riescono nemmeno a uscire dal sottosuolo in quanto sofferenti di una grave forma agorafobica causata proprio da questo stile di vita.
Non c’è quasi più privacy, la maggior parte delle persone vivono nella miseria.
Di lavoro ce n’è poco e quel che resta viene affidato ai robot (logicamente, molto più efficienti e meno problematici).
Gli Spaziali – umani colonizzatori di 50 pianeti esterni – hanno un problema di spopolamento e necessitano dei robot per tutti i lavori manuali.
Nello spazio, infatti, gli umani si sono evoluti in maniera diversa dai Terrestri: hanno sconfitto le malattie e grazie a una elevata selezione genetica sono riusciti ad elevare la loro aspettativa di vita fino a quattrocento anni.
Non c’è da stupirsi che di fronte a tanta differenza nasca dell’attrito.
Sono a tutti gli effetti due popoli diametralmente opposti ma entrambi disperati.
Il problema “sociologico” si ripropone ancora una volta – come capita spesso nei romanzi di Asimov – e viene analizzato con soluzioni che devono abbattere il muro di disprezzo costruito nel corso degli anni.
È così difficile capire qual è il punto di non ritorno e provare a fermarsi poco prima?

AMORE E ODIO
“Il guaio è che Baley non era l’investigatore dei miti popolari: non era incapace di sorpresa e imperturbabile nell’aspetto, non era adattabile all’infinito e non possedeva un cervello che funzionava come la folgore. Non aveva mai pensato di esserlo, ma era la prima volta che gli dispiaceva.
E gli dispiaceva perché R. Daneel Olivaw, al contrario, sembrava la perfetta incarnazione di quel mito.
Per forza: era un robot.”
La conflittualità che respiriamo tra Terrestri e Spaziali la ritroviamo nei due protagonisti: l’umano e il robot.
Il rapporto tra Elijah e Daneel ci aiuta a comprendere meglio le dinamiche umane con tutti i suoi limiti e debolezze.
Gli sviluppi dell’indagine – fulcro della trama – scandiscono anche quei momenti dove il Detective si avvicina sempre di più alla macchina arrivando a capirne l’essenza.
Elijah, infatti, riesce a concludere il suo compito sfruttando proprio la ferrea logica che vincola ogni robot.
Alla fine, tra i due, nasce una complicità che, secondo me, è ancor meglio di un’amicizia nonostante stare accanto all’androide non sia per nulla un compito facile (e viceversa).

L’INIZIO DI TUTTO
“R. Daneel si diresse al condotto dell’immondizia e con un gesto si aprì la camicia sul petto, che sembrava liscio e, almeno alle apparenze, muscoloso.
– Che fai? – chiese Baley
– Mi libero del cibo che ho ingerito. Se ce lo lasciassi andrebbe a male e io diventerei oggetto di disgusto.
R. Daneel piazzò due dita sotto un capezzolo e premette in un determinato modo. Il petto di aprì longitudinalmente. R. Daneel allungò una mano all’interno e da un ricettacolo di metallo luccicante prese un sacchetto sottile e trasparente, in parte ripiegato. Lo aprì sotto gli occhi di Baley, che era prossimo all’orrore.
R. Daneel esitò, poi disse:
– Il cibo è perfettamente integro perché io non mastico e non produco saliva. È stato ingerito per aspirazione, quindi ancora mangiabile.
– Grazie, non ho fame – disse Baley gentilmente – Liberatene.”
Mi ricollego subito a quanto ho scritto sopra.
Daneel è un personaggio che ho già trovato nei libri di Asimov e ho sempre apprezzato.
L’ho conosciuto “alla fine”, quando ormai era un androide influente e già affermato mentre in Abissi d’Acciaio parliamo della sua genesi.
La cosa che mi fa impazzire di Daneel è il suo amore per la conoscenza, che non diventa mai bramosia e il suo senso di moralità.
Certo, ci sono molte scene “comiche” che mi hanno fatto sorridere, soprattutto quelle dove dimostra tutte le limitazioni emotive della sua programmazione ma nasconde sempre in sé un retrogusto malinconico.
Sarebbe sbagliato paragonarlo a Data (Star Trek- The Next Generation) perché, a differenza dell’Ufficiale della Flotta Stellare, non cerca di diventare umano, ma sarei ipocrita se non dicessi che, a tratti, mi ha fatto provare le stesse sensazioni.

IO, ROBOT

 

Io, robot (I, Robot) è una raccolta di racconti di fantascienza di Isaac Asimov, del 1950.

Contiene nove storie scritte fra il 1940 e il 1950 basate sul tema delle tre leggi della robotica, sulle loro contraddizioni e le falle.
L’una è indipendente dall’altra ma viene mantenuto un filo conduttore chiaro: la morale che scaturisce tra l’interazione fra macchina e uomo.

“Robbie” è il primo racconto e, tra tutti, quello che ho apprezzato di più proprio per la sua semplicità.

Asimov intendeva sfatare la credenza del “robot come minaccia” – un’idea molto diffusa all’inizio del XX secolo – per conferire invece agli automi la figura di attrezzi utili e versatili che aiutassero l’umanità.

Siamo nel 1998, periodo in cui la gente sta diventando sempre più diffidente nei confronti degli androidi verso i quali nutrono paura e disprezzo.
La trama si basa sull’amicizia tra Gloria – una bambina di otto anni – e Robbie, un robot programmato per essere il suo amico e guardiano.

“Le palpebre del robot si sollevarono e i suoi lucenti occhi rossi perlustrarono l’orizzonte”.

Robbie è spaventoso a vedersi: con una corazza metallica, inespressivo.
Eppure così inerme davanti alla piccola che, per farlo capitolare, lo minaccia di non leggergli più la sua fiaba preferita.
Per la prima volta una macchina prova sentimenti: si offende se accusato ingiustamente, ha timore, è felice quando gioca.

Facile il collegamento con Detroit Become Human durante la missione ”L’Ostaggio” che – come il libro – è quasi il prologo del videogioco (dove troviamo Daniel, un deviante in preda all’isteria, convinto di non essere più importante per la ragazzina che custodiva).

È una storia nella quale è facile identificarsi: tutti siamo stati piccoli, in un’età dove non esistono filtri imposti dal contesto sociale. Si vive l’amicizia con spensieratezza e ingenuità.

Senza dubbio una mossa intelligente ed efficace: una presentazione così ”tenera” permette ai lettori di capire immediatamente i sentimenti della bambina e, di conseguenza, voler bene a Robbie.

UBIK

 

Ubik (in Italia tradotto anche col titolo “Ubik, mio signore”) è un romanzo dello scrittore statunitense Philip K. Dick, pubblicato nel 1969.

Glen Runciter comunica con la moglie defunta per avere i suoi consigli dall’aldilà.
Joe Chip scompare dal mondo del 1992 e si ritrova nell’America degli anni Trenta.
Una trappola mortale ha annientato i migliori precognitivi del sistema solare ed è in corso una lotta per scrutare il futuro mentre il presente si dissolve, il tempo non ha significato e la vita si scambia con la morte.

Ora proviamo a riordinare le cose:

UN VIZIO FEMMINILE
“Vuoi che ti aiuti a risolvere i tuoi problemi, signor Chip? Sai che posso farlo. Siediti e scrivi il tuo rapporto valutativo su di me. Lascia perdere il test.”
Punto facile da analizzare: stronze, ciniche, intelligenti.
Se poi sono sadiche, ancora meglio.
Mi diverte molto il loro essere disinibite senza mai risultare volgari.
Di solito è la figura femminile a gestire meglio il controllo sugli altri, calibrando le proprie emozioni e usando le sue armi con sapienza e furbizia.
Ogni donna descritta da Dick è unita – bene o male – da queste caratteristiche eppure risulta sempre diversa, mai noiosa o “già vista”.

UBIK
“Io sono Ubik. Prima che l’universo fosse, io ero. Ho creato i soli. Ho creato i mondi. Ho creato le forme di vita e i luoghi che esse abitano; io le muovo nel luogo che più mi aggrada. Vanno dove dico io, fanno ciò che io comando. Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato, il nome che nessuno conosce. Mi chiamo Ubik, ma non è il mio nome. Io sono e sarò in eterno”.
Un banale prodotto commerciale? Un Dio? Tutte e due le cose?
La grande critica di Dick è indirizzata sulla merce che ci circonda, sul consumismo che diventa adorazione di tutto ciò che è “materiale”.
Fight Club diceva: “Le cose che possiedi alla fine ti possiedono” e penso che non possa esistere spiegazione migliore.
L’uomo, creatore, si ritrova in una posizione di schiavo che sta poi alla base di molti film – o libri – di fantascienza dove “le macchine” prendono il sopravvento.
In questo caso non sono androidi ma semplici prodotti.
D’altra parte siamo costantemente influenzati da ciò ce ci circonda, finendo poi per adattarci e piegarci alla volontà del commercio, stravolgendo le nostre vite e calibrando le abitudini in base agli oggetti su cui facciamo affidamento.
Un’analisi sociale spietata e inflessibile.

PUNTI DI VISTA
“È tutto diverso” – le disse Joe – “Devi essere tornata indietro nel tempo e ci hai messo su un altro sentiero temporale; non posso dimostrarlo e non posso specificare la natura dei cambiamenti.”
Cos’è la realtà e cosa tiene collegati i miliardi di fili che la compongono? Non è dato saperlo.
E non si capirà nemmeno leggendo con attenzione.
I personaggi di Ubik hanno una propria teoria della realtà che nel corso della trama viene falsificata e sostituita da una nuova teoria a sua volta insidiata da una diversa consapevolezza.
Nulla porta a un’unica spiegazione ma a una pluralità di soluzioni.
Ma alla fine non c’è una o più risposte esatte.
Il testo prende direzioni inaspettate e, se un evento può risultare incomprensibile all’interno di un dato universo di riferimento, può trovare senso in un altro totalmente differente.
Una lettura che invita a lasciarsi trascinare e godere della trama piuttosto che fare congetture.
Solo il Moratorium (centro di riposo per defunti, dove è possibile – pagando una somma di denaro – collegarsi con i propri cari estinti) ci porta a riflettere con più attenzione: dove sono quelle anime? Su un piano astrale? E, quando esauriscono la propria forza spirituale, dove vanno?
Perché sì, in qualche modo, anche i morti hanno paura della solitudine e della fine.
In un clima di suspense e paura, la sensazione è quella di essere intrappolati in un incubo surrealista che non si piega alle regole del romanzo classico.
Seguire il flusso di Ubik è, forse, l’unico modo sensato di capirlo fino in fondo.

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