È più forte di me.
Ogni volta che riprendo in mano “Detroit Become Human” vorrei scegliere strade differenti e optare per nuove alternative di trama.
Ma non ci riesco.
Mi sono affezionata a Connor – il detective androide inviato dalla CyberLife – e, ogni volta, lo umanizzo all’estremo.
Nulla di strano in realtà.
L’ho fatto anche con Data (Star Trek – The Next Generation), R. Daneel Olivaw (Abissi d’Acciaio – Isaac Asimov), Nick Valentine (Fallout 4) e il T-800 (Terminator).
E dopo l’ennesima partita UGUALE alle precedenti mi sono chiesta: perché mi affeziono così tanto a questi benedetti androidi?
Dunque, diciamo che la dinamica “robot che sviluppano una propria identità” mi affascina.
È sempre interessante osservare l’asticella del concetto di anima alzarsi e trovare nuove definizioni.
E fin qui penso che molti saranno d’accordo con me. È tipo il perno attorno al quale gira tutto il filone cyberpunk/futuristico.
Però, nel mio caso, penso che ci sia di mezzo anche una buona dose d’empatia nei confronti degli androidi.
Non tanto per l’atteggiamento – mi reputo una persona piuttosto espansiva e socievole – ma per il contenuto.
Faccio davvero tanta fatica a svelarmi, temo sempre di essere fraintesa o, peggio, di risultare fastidiosa.
E quando mi lascio andare sento in testa una specie di “ALLARME DEVIANZA” che mi avvisa di rimettermi subito in carreggiata e tentare un rassicurante rapporto conviviale ma non troppo invadente.
Insomma mi auto-regolo così da una vita e, forse, quando vedo un androide sullo schermo lo costringo a sviluppare e mostrare i propri sentimenti senza lasciarsi bloccare dalle paure che avrei se fossi al suo posto.
Sì, deve essere l’empatia.
Però, sono sincera, con Borg e Necron non ci farei amicizia.